Il presidente nazionale di Confapi Sanità Pulin: «Le gare fatte all’insegna del massimo ribasso hanno spinto le imprese del settore biomedicale a delocalizzare. E ora non riusciamo a produrre nemmeno le mascherine che servono»
«Non è questo il tempo delle polemiche, ma delle proposte concrete per il bene del Paese e di tutte le sue componenti, affinché, passata la tempesta, non restino solo macerie, ma un tessuto sociale ed economico ancora integro e pronto a ripartire». Il padovano Massimo Pulin, presidente nazionale di Confapi Sanità, guarda avanti. «La mancata riorganizzazione Sistema Sanitario Nazionale e Regionale ha portato, in questa fase di grave emergenza, alla sofferenza delle aziende del settore. Non solo: per essere concreti, ha condotto alla situazione attuale, per cui in Italia scarseggia persino l’Amuchina e le mascherine siamo costretti a importarle dal Sudafrica, dal Sud America, dall'India e dalla Cina».
Perché succede?
«Perché in questi anni tutte le gare d’appalto hanno premiato esclusivamente il massimo ribasso, senza badare alla qualità. Questo ha spinto le aziende del settore biomedicale a delocalizzare per abbattere i costi. Anche per produrre quelle stesse mascherine di cui avremmo molto bisogno».
Ma le aziende italiane non possono riconvertirsi e tornare a produrle?
«Per prima cosa dovrebbero trovare i materiali per farle e poi ottenere la certificazione per commercializzarle. Anche se l’emergenza spingesse ad allentare i lacciuoli della burocrazia per quanto riguarda la certificazione, comunque produrle non sarebbe semplice né immediato. E questo è solo uno degli esempi: ho citato le mascherine, ma potremmo parlare di carrozzine o di altri dispositivi medici. A questo punto, allora, è doveroso che ciascuno assuma le proprie responsabilità, aziende comprese. E cito le aziende perché nemmeno la loro condotta è scevra da errori, il più grave dei quali, forse, è stato quello di non far nulla per evitare che si arrivasse a questo punto, predisponendo dei piani nazionali per far capire alla politica l’importanza della manifattura».
E quindi, voi imprese del settore privato cosa chiedete oggi al Ministero della Salute?
«Per prima cosa, le aziende che erogano i cosiddetti “servizi minori”, ma non di minore importanza per la cittadinanza (come per esempio la riabilitazione, la chirurgia minore, la fornitura di beni e servizi, la fornitura di protesi e ausili per disabili) dovrebbero poter usufruire di un percorso facilitato da Nomenclatori nazionali e regionali rinnovati e rivisti, al fine di garantire che le tariffe per le singole prestazione e forniture siano certe, non discutibili e non interpretabili. E per raggiungere tale obiettivo, oltre al nomenclatore unico nazionale, serve l’istituzione di un unico Ente che le certifichi e controlli. A quel punto le e modalità di gestione degli acquisti dovrebbero privilegiare i fornitori italiani. Ma è tutto il rapporto tra pubblico e privato che va ridefinito».
In che modo?
«Concentrando le risorse pubbliche nella cura delle patologie complesse e lasciando alle aziende private accreditate la cura delle patologie minori. Così facendo si ridurrebbero i costi a carico del Sistema Sanitario Nazionale, in quanto le aziende accreditate avrebbero costi certi e sicuramente inferiori. Per altro verso si realizzerebbe in maniera coerente e ordinata una nuova forma di integrazione fra pubblico e privato, alla luce della saggezza antica secondo cui “praetor nun curat de minimis”. In molti paesi europei questo avviene già da molto tempo. E tenete presente che anche gli imprenditori, sacrificando una parte del “legittimo profitto”, sono pronti a fare la loro parte. Mai come in questo momento ciò appare di buon senso. Basta osservare l’attuale carenza di personale sanitario, destinato, nella normalità dei tempi, a servizi amministrativi e di controllo, poco utili alle finalità della scienza e della cura medica».
Ma è davvero possibile una rivoluzione di tale portata senza prima ipotizzare una rivoluzione “culturale”?
«Il corollario di quanto dico è, appunto, quello che vengano premiate le professionalità. L’unico metro di selezione deve essere quello delle capacità e competenze. Diversamente, ogni emergenza sarà un disastro. La crisi, quindi, dovrà condurre tutti a riflettere sull’opportunità che da essa possa nascere un reale cambiamento del nostro servizio sanitario, scongiurando lo scoramento che facilmente sorge di fronte al dramma attuale».
Il messaggio, pare di capire, non va rivolto solo alla classe politica.
«Questo invito è rivolto alla classe politica, ma anche a tutte le componenti della società italiana. L’attuale momento di emergenza può rivelarsi anche uno stimolo (senza scomodare Keynes) per riportare la manifattura italiana ai livelli di eccellenza che l’hanno sempre contraddistinta per qualità e competitività, ponendo fine alla disastrosa delocalizzazione che ha impantanato per anni l’economia nazionale».