Per il presidente di Confapi (Confederazione della piccola e media impresa), «la paralisi attuale e la recessione sono più minacciose di una temporanea sospensione del Codice degli appalti»
«La priorità è sbloccare i cantieri». Maurizio Casasco, presidente di Confapi (la Confederazione della piccola e media industria privata che conta 83mila associati e 800mila addetti), non vuole sentire ragioni.
Cosa sperate con questo decreto?
La paralisi attuale e la recessione sono più minacciose di una temporanea sospensione del Codice degli appalti, che ovviamente non può prescindere dal rispetto della legalità e della trasparenza. Sospendere l'efficacia del Codice degli appalti non vuol dire licenza di delinquere, ma l'applicazione diretta e immediata della direttiva europea sulla materia, ossia di un complesso di regole che, mentre non è affatto più lassista del Codice italiano, è sicuramente privo di inutili procedimenti e “procedimentini” che fanno dell'Italia il regno delle opere cadenti o incompiute.
L’importante è aprire i cantieri quindi…
Certamente. Resta inteso che la priorità è quella di varare regole semplici, chiare e durature nel tempo che diano garanzia di legalità e opportunità di lavoro. La stragrande maggioranza degli imprenditori italiani sono seri e dalla parte del lavoro e dello sviluppo, così come la stragrande maggioranza di dirigenti e funzionari della pubblica amministrazione. Da un anno attendiamo l'inizio della ricostruzione del Ponte Morandi a Genova e abbiamo accumulato inspiegabili ritardi nell'avanzamento dei lavori della Tav. È ora di muoversi per il bene del Paese. Altri Paesi crescono più di noi: Spagna, Portogallo e addirittura la Grecia. In Italia c’è troppa burocrazia e troppa politica.
Quali sono i suggerimenti per uscire da questa crisi?
L’Italia ha necessità di scegliere in maniera strategica. Sbloccare le opere pubbliche significa creare lavoro, muovere l’economia, generare crescita. Sistemare scuole, strade, ferrovie, ponti costituisce un enorme volano di sviluppo per i territori.
Allora siete favorevoli al decreto Crescita…
Contiene diverse norme condivisibili, ma siamo convinti che si debba fare di più. È necessario un piano industriale che rilanci la nostra economia e soprattutto mettere al centro delle politiche attive chi il lavoro lo crea, vale a dire le nostre imprese. Serve più coraggio nei provvedimenti. E’ importante rivedere le percentuali previste per la proroga del credito d’imposta per le spese in ricerca e sviluppo. Non prevedere un sempre più forte investimento in questo settore è penalizzante per tutte le piccole e medie industrie che devono innovare e che non sempre hanno al loro interno, essendo piccole, propri centri di ricerca. Da questo punto di vista, per crescere ed essere competitivi occorre innovare non solo i sistemi di produzione, ma soprattutto i nostri prodotti. Il tema dell’accesso al credito diventa focale. Il decreto contiene interventi per sostenere la capitalizzazione delle Pmi, ma avrebbe dovuto osare di più e proporre più strumenti alternativi all’accesso al credito.
Con un debito pubblico così alto accettereste anche i minibond?
Prima di tutto serve una politica antisprechi. Un taglio agli sperperi a livello regionale per ottimizzare la spesa. Non è un mistero che i canali alternativi a quello bancario, come i Pir e i minibond, non hanno raggiunto l’obiettivo di supportare le nostre industrie. Accetteremmo i minibond e i titoli di Stato se fossero inseriti in un quadro complessivo di riordino delle politiche fiscali e delle politiche attive del lavoro. Inoltre c'è bisogno di mettere ordine nel sistema della rappresentanza. Ma soprattutto sarebbe utile la detassazione degli aumenti salariali: i piccoli e medi industriali sarebbero ben contenti di aumentare gli stipendi dei propri dipendenti se questi fossero detassati.
Di quali altri provvedimenti avreste bisogno?
Per dare maggiore liquidità e competitività alle imprese è necessario accorciare i tempi di pagamento non solo con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati. Infatti, secondo un nostro studio, abbassando i tempi di riscossione del ciclo credito/debito a 60 giorni l'indebitamento finanziario netto diminuisce di oltre il 55%: ciò consentirebbe di dare più forza all’impresa che vuole investire. Inoltre la reintroduzione del super ammortamento per i beni strumentali tradizionali, misura da noi voluta fortemente, la rivisitazione della mini-Ires, la maggiorazione della deducibilità dell’Imu sui capannoni industriali, il patent box, la norma sulle aggregazioni d’imprese, il sostegno all’autoimprenditorialità, la salvaguardia del made in Italy e dei marchi storici sono tutte misure che vanno nella direzione giusta ma non ancora sufficienti a dare quell’impulso decisivo per la crescita e lo sviluppo delle nostre imprese.
Ma cosa chiedete all’Unione Europea?
A voce unita noi imprenditori di tutta Europa abbiamo indicato, con una precisa campagna lanciata da Cea-Pme (la Confederazione europea delle pmi) prima delle elezioni, quali debbano essere le priorità per i nuovi vertici europei. Non bisogna dimenticare, infatti, che su 23 milioni di imprese registrate il 99,8% sono pmi. Sono sempre le piccole e medie imprese che formano l’80% dei lavoratori qualificati, impiegano il 60% del personale e creano i due terzi della ricchezza complessiva. Lo sblocco delle grandi opere è un esempio concreto di credibilità e di crescita così come il taglio incisivo delle spese inefficienti a livello nazionale e regionale può rappresentare uno strumento di riduzione del debito. È certamente necessario per il nostro Paese investire nella ricerca, nell’educazione e nell’innovazione, nelle infrastrutture nuove e vecchie, sbloccare i cantieri e incidere in maniera impattante sul cuneo fiscale che ci penalizza, insieme ai lacci e laccioli burocratici, anche in termini di competitività. L’Europa è e resta un baluardo per la crescita, ma c’è bisogno di un intervento forte che vada nella direzione di una maggiore competitività delle nostre pmi.