Il 2022 si è chiuso con 6.900 posti di lavoro in più creati a Padova e con un incremento del 26% dei contratti a tempo indeterminato. Ma le imprese non troveranno il 52,5% delle figure professionali di cui hanno bisogno entro aprile. Il presidente di Unionchimica Confapi Padova Luigi Bazzolo: «Situazione peggiorata con la pandemia, alla mia azienda mancano 12 persone, ma è così ovunque». L’intervista esclusiva al direttore di Veneto Lavoro Tiziano Barone: «C’è un problema demografico e uno legato alle competenze formative».
In un contesto di piena occupazione, mancano i lavoratori. L’allarme non è nuovo, ma assume proporzioni sempre più ampie nel territorio padovano e veneto. Fabbrica Padova, centro studi di Confapi, ha incrociato i dati più significativi messi a disposizione da Veneto Lavoro e Unioncamere-ANPAL (Sistema Informativo Excelsior), fotografando nei numeri una situazione che sempre più imprenditori lamentano.
L’anno appena lasciato alle spalle si è confermato più che positivo per il mercato del lavoro veneto: il saldo tra assunzioni e cessazioni è pari a 29.500 posti di lavoro dipendente in più. La crescita registrata nel 2022 è determinata esclusivamente dai contratti a tempo indeterminato, aumentati nel corso dell’anno di 37.400 unità e del +26% in termini di domanda di lavoro. Proprio Padova, in questo contesto, spicca per buona salute, con 6.900 posti di lavoro in più nel corso dell’anno, seguita da Venezia e Verona (entrambe attorno a 5.900 posti di lavoro in più). La tendenza per i primi mesi del 2023 farebbe indurre all’ottimismo: entro il mese di marzo le imprese padovane hanno previsto entrate per 23.340 figure professionali – numero che si assesta a 20.170 spostando il focus sul trimestre febbraio-aprile e che sale a 116.940 allargando la prospettiva al Veneto, in cui il 21,7% delle imprese dichiara di aver previsto assunzioni. E, però, siamo sempre lì: nel 52,5% dei casi le imprese padovane non riusciranno a inserire nel proprio organico le figure di cui hanno bisogno, una difficoltà denunciata, sia pure con percentuali diverse, pressoché in ogni settore: sale al 60,1% se l’azienda cerca dirigenti e professioni con elevata specializzazione e tecnici; scende al 43,4% per impiegati, e per professioni commerciali e nei servizi, e risale a un drammatico 61,6% per operai specializzati e conduttori di impianti e macchine. Ma anche per le professioni non qualificate il problema esiste, perché nel 31,8% dei casi le imprese lamentano la difficoltà nel reperire personale generico.
Un problema che Luigi Bazzolo, titolare di Vebi Istituto Biochimico e presidente di Unionchimica Confapi Padova, conosce bene. «Mi manca una dozzina di persone che non riusciamo a trovare da tempo, su un totale di una novantina di dipendenti che abbiamo. In particolare, le difficoltà sono legate alla linea di produzione, dove a regime avremmo bisogno di una trentina di dipendenti, ma una decina ci manca», è la sua testimonianza. «Figure che stiamo cercando attraverso una decina di agenzie di recruiting attivate ad hoc e annunci su vari canali, a partire dai social. È un problema che fino a un paio di anni fa non avvertivamo, esploso dopo la pandemia. E non capiamo se dipenda dal fatto che sono “sparite” persone o se è il settore che sta crescendo. Tenete presente un altro aspetto: un nostro lavoratore deve padroneggiare bene l’italiano, perché deve sapere quali prodotti sta utilizzando, e questo già toglie una fetta di potenziali dipendenti provenienti dall’estero. Il punto è che, in questa fase storica, chi è valido ha a disposizione un mercato del lavoro mobilissimo, per cui si sposta senza problemi di azienda in azienda per cifre irrisorie, come 50 euro in più in busta paga. E tu, da imprenditore, se hai già qualcuno di specializzato devi, in un certo senso, coccolartelo. Ma questa situazione mette a rischio lo sviluppo, perché, se vogliamo assumere, è perché quelle figure ci servono. Ed è un problema comune a tutto il nostro settore, e non solo».
Sul tema, Confapi Padova ha intervistato Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro, l’Ente regionale a cui sono attribuite le funzioni di direzione, coordinamento operativo e monitoraggio della rete pubblica dei servizi per il lavoro. «Il missmatching tra domanda e offerta di lavoro è un elemento strutturale in tutte le regioni competitive, in Italia e in Europa», evidenzia Barone in uno dei passaggi della sua analisi, «ed è legato al fatto che il mercato del lavoro si è polarizzato tra alte e basse qualifiche, per cui a crescere maggiormente sono le professioni a elevata specializzazione (e remunerazione) e quelle a bassa qualifica, poco pagate, a discapito delle professioni intermedie, che a partire dal 2008 hanno registrato un continuo declino. Dopodiché occorre dire che le difficoltà nel reperire manodopera sono legate soprattutto a due fattori. In primis c’è quello demografico, vale a dire che le persone mancano per una mera questione numerica: per intenderci, in Veneto, nel 2030, la popolazione in età lavorativa diminuirà di 150 mila persone rispetto a oggi. Il secondo punto è legato alle competenze, perché se mancano 50 figure professionali su 100, di quei 50, metà non ci sono per le ragioni demografiche e l’altra metà perché i possibili candidati non hanno, appunto, le competenze per svolgere quella mansione. Ne consegue che il primo punto da affrontare riguarda interventi che influiscano sulla propensione delle famiglie a fare figli e sui flussi migratori. Per quanto riguarda invece le competenze penso, in particolare, allo spazio di riconversione di certi titoli di studio attraverso gli ITS, riguardo ai quali serve una maggior consapevolezza da parte delle famiglie e delle stesse scuole. Ma va detto anche che, per far fronte al problema, di ITS ne servirebbero dieci volte tanti».